di Alessandra La Rosa

Pubblicità online, ecco i 4 motivi per cui secondo il Dipartimento di Giustizia americano Google viola la concorrenza

Forti le accuse formalmente presentate nei confronti di Big G, di cui ora viene richiesta la cessione della suite Google Ad Manager

Photo by Pawel Czerwinski on Unsplash

È ufficiale: il Dipartimento di Giustizia americano ha fatto causa a Google per abuso di posizione dominante nel mercato della pubblicità online.

«Google ha utilizzato una condotta anticoncorrenziale, escludente e illegale per eliminare o ridurre fortemente qualsiasi minaccia al suo dominio sulle tecnologie pubblicitarie digitali – ha dichiarato il procuratore generale Merrick B. Garland, nella conferenza stampa in cui è stata annunciata l’azione legale -. A prescindere dal settore e dall’azienda, il dipartimento di Giustizia applicherà con forza le nostre leggi antitrust per proteggere i consumatori, salvaguardare la concorrenza e garantire l’equità economica e le opportunità per tutti».

In un documento di ben 153 pagine depositato presso la Corte Federale della Virginia, il Dipartimento elenca le motivazioni alla base della denuncia, sottolineando quelli che sono stati i fattori che hanno determinato negli ultimi 15 anni un vero e proprio monopolio di Big G nell’ambito della pubblicità online. Fattori sintetizzabili in quattro principali comportamenti anti-competitivi.

Il primo è l’acquisizione di concorrenti, portata avanti da Google per ottenere il controllo di strumenti e soluzioni pubblicitarie online fondamentali per gli editori per la vendita dei loro spazi pubblicitari.


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Il secondo è la forzatura all’adozione dei propri strumenti di gestione della pubblicità, non solo indirizzando la domanda degli inserzionisti verso la propria piattaforma di scambio (ad exchange), ma anche condizionando l’effettivo accesso in tempo reale a questo ad exchange all’utilizzo del suo ad server lato editori.

Il terzo è la distorsione della concorrenza nelle aste, sia limitando il real-time bidding sull’inventory degli editori al proprio ad exchange, sia impedendo ad altri ad exchange di competere allo stesso livello.

Infine, il quarto è la manipolazione dei meccanismi d’asta, un processo avvenuto secondo l’Antitrust su svariati strumenti di Google per isolarla dai concorrenti, privare questi ultimi di scalabilità e bloccare lo sviluppo di tecnologie rivali.

Le accuse sono forti e vanno a toccare una fondamentale fonte di guadagno per Big G, che dagli introiti pubblicitari deriva la gran parte del proprio fatturato. “Come risultato del suo monopolio illegale, e da sue stesse stime – recita la nota del Dipartimento di Giustizia USA –, Google intasca in media più del 30% della spesa pubblicitaria che passa attraverso i suoi prodotti di advertising online; per alcune transazioni e determinati editori e inserzionisti, anche parecchio di più. La condotta anticoncorrenziale di Google ha soppresso tecnologie alternative, ostacolandone l’adozione da parte di editori, inserzionisti e rivali.”

Adesso la palla passa alla Corte, cui il Dipartimento di Giustizia richiede, tra le altre cose, di forzare la cessione da parte della società della suite Google Ad Manager, inclusi sia l’ad server lato editore di Google – DFP – sia l’ad exchange AdX.

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