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17/11/2017
di engage

User Experience: come essere creativi nell’era dei Big Data

L’utilizzo dei dati può portare un valore aggiunto nel design della User Experience? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Pola, Ceo di GreatPixel

L’utilizzo dei dati può portare un valore aggiunto o al contrario penalizzare il design della User Experience? L’interrogativo, quasi una domanda delle 100 pistole, circola sottotraccia tra i professionisti della User Experience e tra le stesse aziende committenti, le quali, ormai in misura crescente anche in Italia, si affidano sempre di più a queste figure in grado di analizzare come le persone percepiscono una determinata esperienza - digitale e non - legata a brand, prodotti, servizi e ambienti, per proporre soluzioni efficaci al fine di assicurarsi un’usabilità fluida. Professionisti duttili, portatori di diverse competenze, sino ad oggi gli UX Designer non hanno ancora preso in seria considerazione il mondo dei Big Data, un segmento esploso solo di recente. Del resto la UX, vantando una tradizione che parte dagli anni ‘90, ha già individuato delle strade consolidate per esprimersi come, ad esempio, il Design Thinking. «Certo tutti riconoscono l’importanza dei dati – spiega Giovanni Pola, Ceo di GreatPixel, l’agenzia di marketing digitale che ha fatto dell’approccio "Data + Human Driven" il proprio marchio di fabbrica - ma attualmente predomina un approccio più qualitativo che quantitativo. Secondo me il dubbio che ancora alberga nella testa dei designer è che appoggiandosi troppo ai dati rischino di perdere la loro parte creativa e disruptive».

Ma allora, conviene o no mixare l’approccio qualitativo del designer con quello più quantitativo tipico del mondo dei Big Data?

Quando l’obiettivo è trovare una forte discontinuità col passato, la ricerca qualitativa, i focus group, le interviste, gli usability test e così via, sono in grado di offrire insight più strategici. I dati invece raccontano sempre una realtà già esistente, ma sono essenziali quando l’obiettivo di un designer non è tanto sconvolgere, ma ottimizzare quello che già c’è. Quando si analizza qualcosa che va ottimizzato è come quando si fa il setting di un motore: se cerchi di capire come si trasmette l’energia all’interno di un macchina i dati ti offrono un contributo prezioso, ma se devi cambiare completamente la carrozzeria difficilmente un computer collegato alla macchina ti dirà come riprogettarla da capo. E’ quindi importante comprendere gli obiettivi di un lavoro di UX e come sfruttare i dati nelle varie fasi del progetto.

Quindi il dato quantitativo è più oggettivo, questo può aiutare a prendere decisioni nel rapporto tra agenzia e committenti?

Si, a patto che l’obiettivo del progetto richiesto all’agenzia sia misurabile. Se un azienda chiede un sito efficace nella vendita e in fondo c’è un kpi, allora l’intero processo può essere improntato a una misurazione: se invece il cliente chiede un sito che sia semplicemente bello allora diventa più difficile. Ma il dato, quando è uno dei risultati del progetto, diventa fondamentale non solo in fase di ideazione e progettazione, ma anche nel rapporto di business tra le aziende. In questo caso può essere utilizzato in qualsiasi fase, anche in quelle più strettamente creative, come ad esempio quando devo decidere se il colore di una parte della mia interfaccia o di un servizio instore, debba essere giallo piuttosto che rosso. GreatPixel è in grado di fornire queste risposte perché si avvale di un tool di intelligenza artificiale, una sorta di simulatore in grado di misurare come si comporta l’occhio delle persone rispetto ai colori. Sino ad oggi questo tipo di decisioni venivano demandate solo al gusto, all’esperienza o ai vincoli di coerenza complessiva legati a un brand, adesso invece ci sono delle evidenze che posso aiutarci a trovare delle soluzioni.

Ma quando la fase di progettazione è terminata e il sito o la app sono live ovvero sono esposte al cliente finale, questo mix di tecniche quali-quantitative può risultare ancora utile?

Sì, ma dipende ancora una volta dall’obiettivo aziendale. Noi abbiamo la possibilità di analizzare il comportamento di un utente fin dalla primissima esposizione al nostro messaggio o contenuto. Sin dal momento in cui è esposto al nostro link in risposta ad una sua ricerca o a un banner quando vede per la prima volta il prodotto, fino a quello che accade mesi dopo l’atto di acquisto. Possiamo misurare tutto questo funnel di esperienze per capire dove questo percorso si interrompe per poi spezzettare il processo in tutti quei punti di sofferenza sia per l’azienda che non ottiene i risultati sperati, sia per l’utente finale che non riesce ad andare avanti e prendere delle decisioni. E’ possibile affrontare dei percorsi mirati su singoli pezzi di esperienza, invece che sul livello complessivo, attraverso l’ausilio di tecniche come l’A/B Test, che non è altro che un grande esperimento psicologico. Anche in questo caso ci avvaliamo del nostro approccio quali-quantitativo che ci consente di ottimizzare un singolo tratto che i dati ci indicano in sofferenza. Del resto GreatPixel nasce proprio sul presupposto di quanto sia importante coltivare un grande amore per i dettagli, ad esempio, per quel pixel che posizionato al punto giusto può cambiare profondamente il risultato di un progetto aziendale.

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