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17/04/2024
di Marco Loguercio, Founder & Ceo di Find

Google testa i brand favoriti nelle ricerche: cosa cambia per le marche?

Big G sta rilasciando negli USA una funzione che permette agli utenti di salvare i propri brand preferiti nelle ricerche. Ecco come funziona e quali sono le implicazioni per le aziende

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Nella sezione "Opinioni", Engage dà spazio ad articoli di approfondimento scitti da esperti di comunicazione digitale. In questa occasione Marco Loguercio, Ceo e Founder dell'agenzia Find, spiega come funziona una nuova soluzione di Google che permette agli utenti di salvare i suoi brand preferiti nelle ricerche di Google, e quali potrebbere essere gli impatti di questo cambiamento sulle strategie digitali delle aziende.


La ricerca su Google è da sempre stata per i brand direct-to-consumer che vendono anche online una fonte di opportunità e territorio di caccia di nuovi clienti. Tanto per le marche affermate che per i digital native vertical brands che, soprattutto nel decennio scorso, hanno trovato nell'accoppiata Google + Meta l'arma vincente per crescere e (in molti casi) prosperare.

Ma se negli ultimi anni il gioco per i brand si è fatto sempre più difficile tra crisi economiche e pandemie, privacy, cookie cancellati, costi di acquisizione cresciuti, ritorno allo shopping nei negozi fisici, disaffezione ai brand e via elencando, ora una novità di Google potrebbe semplificare un po' di più la vita ad alcune aziende, complicarla ad altre.

Nelle scorse settimane Google ha infatti annunciato il rilascio graduale negli USA, per le ricerche commerciali di prodotto (per i prodotti che si possono acquistare online), di una nuova funzione che consente a chi ha effettuato la ricerca di poter salvare i propri brand preferiti, tra quelli proposti da Google, in modo da poter vedere in futuro più risultati delle marche selezionate.

Potenzialmente a discapito di tutti quei brand che invece vorrebbero farsi conoscere e affermarsi.

A oggi questa funzione è attiva solo per chi cerca negli USA su Google da utente "loggato", condizione necessaria per poter salvare i brand nelle proprie preferenze di ricerca.

E' una funzione ancora spot che compare oggi a campione soprattutto per le ricerche di capi di abbigliamento, come si può vedere nell'immagine sottostante:

Non si tratta di una novità assoluta.

Google l'aveva preannunciata già a settembre 2022, ma - salvo qualche apparizione sporadica segnalata da addetti ai lavori statunitensi del marketing digitale nei gruppi di discussione - non era mai stata rilasciata in maniera decisa e convinta.

Ora, nell'anno in cui molti operatori del settore si aspettano il rilascio anche delle funzioni di intelligenza artificiale generativa a supporto delle ricerche, che Google ha iniziato a testare pubblicamente a inizio aprile -dopo un anno di beta - anche in questo caso negli USA e anche in questo caso a campione, ecco il ritorno di fiamma anche per questa soluzione che, per molte aziende, potrebbe essere un ulteriore strumento di fidelizzazione.

Ma come funziona?

In questi primi giorni di aprile ho fatto test in lungo e in largo, utilizzando una banale VPN, per capirne il funzionamento. Limitandomi sempre al business B2C, ho svolto ricerche su diversi verticali di prodotto, dall'abbigliamento alle creme di bellezza, dall'attrezzatura sportiva al cibo, dall'elettronica di consumo all'arredamento.

Ricerche generiche così come ricerche molto precise. Anche ricerche in lingua italiana, non solo inglese, ottenendo anche in questo caso la lista di brand da salvare (il rilascio a livello internazionale potrebbe quindi essere imminente).

Tutte, però, sempre senza indicare un brand di riferimento.

Le ricerche dove l'ho vista attivata nella maggior parte dei casi sono quelle di abbigliamento e accessori (occhiali, segnatempo, gioielli, borse...). In sostanza: tutto quello che è indossabile.

L'opzione compare tanto per ricerche di capi di lusso che per capi fast fashion (cambiano, ovviamente, i brand proposti); per i capi di abbigliamento sportivo così come per l'intimo e costumi da bagno.

Anche per capi di abbigliamento da lavoro, ad esempio abbigliamento protettivo. Anche se qui la maggior parte dei brand proposti non aveva nulla a che vedere con quella categoria.

Qui emerge il primo, potenziale problema: Google propone una lista di brand da salvare che non è modificabile. E che, spesso, è imprecisa: accanto a brand riconosciuti come riferimento del settore ne compaiono altri che non rientrano nella categoria di prodotto cercata.

Google, specificando che è una funzione ancora in beta e che non è una soluzione di advertising, spiega in modo vago come siano selezionati quei brand ("sono brand legati alla tua ricerca").

Ma sicuramente non sono legati allo storico di ricerche e ai comportamenti online della persona che sta cercando visto che, almeno nel mio caso, non ho visto comparire brand a me familiari e ho trovato brand che mai avrei associato a quei prodotti.

Il secondo potenziale problema è che gli strumenti che Google offre per analizzare lo scenario, da Google Analytics a Google Search Console, non indicano se un'azienda sia stata aggiunta o meno tra i preferiti, così come non indicano la percentuale di ricerche sul totale impattate da questa personalizzazione (così come non offre dati precisi sull'uso di tutti i filtri che oggi accompagnano le pagine di risultati di ricerca più commerciali). Occorrerà quindi che si attivino società terze, come possono essere i produttori di tool SEO per l'analisi della composizione delle pagine di risultati, per indicare quali brand siano suggeriti a chi cerca e se il brand dell'azienda che si sta analizzando sia o meno presente in quella lista (o sia presente solo per particolari tipologie di ricerca).

Cosa succede quando si seleziona uno o più brand preferiti?

Nel momento in cui si decide di aggiungere uno o più brand alla propria lista di preferiti, Google propone di attualizzare la pagina di risultati.

Ma, di fatto, non accade molto.

I brand selezionati non hanno avuto - quantomeno in questi giorni di test, ma la situazione potrebbe cambiare - una spinta particolare tra i risultati di ricerca, né nel carosello di shopping, né nella lista di risultati naturali.

Anzi.

Ci sono stati casi in cui brand selezionati per alcune categorie di prodotto (ad es. pantaloni) poi non comparissero nemmeno nella lista dei brand favoriti in altre dove pur sono attivi (es. camicie o magliette).

E non si è verificato quello che molti temono: che "preferire" un brand equivalga ad attivare un filtro per il brand che vada a escludere molti altri.

Una introduzione quindi molto soft, neanche più di tanto spinta visto che, come già anticipato, la lista compare in posizione defilata, ma che potrebbe avere comunque per Google una ragione d'essere: la possibile raccolta di dati, comportamenti, preferenze in vista, ad esempio, dell’introduzione di soluzioni legate all'intelligenza artificiale generativa.

Le implicazioni per i brand

Quali potrebbero essere quindi le implicazioni per quei brand italiani DTC della moda e del lusso che già oggi vendono online direttamente negli USA? E cosa si potrebbe fare nel breve?

Siamo ancora in una primissima fase di test, in cui non sono disponibili dati ufficiali sull'adozione di questa soluzione. Le voci raccolte in Rete non sempre sono favorevoli alla novità, che potrebbe limitare a chi sta cercando le possibilità di scoprire anche cose nuove. Situazione che, a oggi, non sembra essere un rischio concreto.

Di sicuro la prima cosa da fare, direttamente o demandandolo a specialisti, è un monitoraggio, per le proprie parole chiave di riferimento su google.com con una VPN (o direttamente negli USA, per chi già ci si trovi o abbia personale oltreoceano), se il proprio brand compaia nella lista di quelli suggeriti da salvare per le diverse categorie di prodotto in cui si opera, visto che prodotti diversi possono avere brand suggeriti diversi.

La seconda cosa è monitorare in maniera ancora più dettagliata le vendite attribuibili a organico negli USA, per vedere se vi siano anomalie (in positivo o in negativo) in quest'ultimo periodo e, in caso positivo, verificare a cosa possano essere riconducibili.

Se poi si è in vena di test e si è tra i brand che compaiono nella lista dei papabili preferiti proposta da Google, si potrebbe inviare (semplifico, in realtà la cosa va studiata per bene da parte di ogni azienda) una newsletter a una parte della propria lista di clienti statunitensi invitando ad aggiungere il brand tra i preferiti ("per non perdere neanche tra i risultati di ricerca le nostre novità" potrebbe essere una value proposition) e vedere, nel medio periodo (da 3 mesi a un anno) se cambi qualcosa.

Come la vedo personalmente

Analizzando da oltre 20 anni i comportamenti di ricerca online e di acquisto, per come è strutturata adesso, questa funzione non è destinata nel breve a portare stravolgimenti nel business delle aziende così come nei comportamenti di acquisto.

Occorrerà capire se, nel medio periodo, sarà abbinata ad altre novità che potrebbero essere invece "disruptive".

L'adozione di questa funzione potrebbe poi essere legata molto all'età, con le fasce più giovani più propense a sperimentarla rispetto a chi è più avanti negli anni. Ma sono pure supposizioni, visto che ogni ricerca è un mondo a sé.

Poi c'è la questione "status": soprattutto per le ricerche di prodotti di lusso, dove la lista dei brand da preferire compare mediamente in posizione più visibile rispetto ad altre categorie, l'assenza di alcuni brand spicca molto più della presenza di altri.

Mi immagino quindi che il marketing di queste realtà possa attivarsi per esserci e nobilitare il proprio status. Parlo soprattutto di quei brand che aspirano a posizionarsi al top anche nel percepito, non solo nella sostanza.

Ma anche di quei brand che sono il top assoluto in termini di qualità, ma che non compaiono in quella lista in categorie dove meriterebbero di essere.

Diffiderei invece di chi, semplificando il tutto, vada a proporre a queste aziende di incrementare il budget media su Google per aumentare le possibilità anche di comparire in quella lista. OK che Google, parte di una holding quotata, ha obiettivi di crescita sempre molto aggressivi sul fronte pubblicitario, ma non la vedo come una soluzione meramente speculativa.

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