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Valori a più voci

A cura di Sergio Amati, General Manager IAB Italia

Storie di valori per il nuovo mondo digitale

21/09/2020
di Sergio Amati, General Manager IAB Italia

Contratto sociale digitale

I filosofi e i pensatori che avevano teorizzato il “contratto sociale” non avevano previsto il cambiamento che il digitale avrebbe generato negli equilibri tra stato, imprese e cittadini. Rinunciare a una parte della propria libertà individuale a favore di una sicurezza comune è ancora possibile in un mondo dove la privacy è così a rischio? Serve un “Contratto Sociale Digitale” che regoli i rapporti tra i vari attori

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Al Liceo avevo un professore di Filosofia che si chiamava Gabriele Mandelli. Ero uno studente distratto, preso dall’organizzazione di feste danzanti, dalla realizzazione del giornalino della scuola e dall’osservazione (solo quella purtroppo) delle compagne di classe, e mi perdevo mediamente due concetti su tre tra quelli che lui cercava di trasmetterci. Ho capito solo anni dopo quanto il Professor Mandelli fosse bravo e ancora adesso alcune tra le sue appassionate lezioni sono rimaste dentro di me, le sue idee come dei pixel invisibili che aiutano a tracciare la mia percezione del mondo.

Una di queste riguardava il “Contratto Sociale”, il sistema che ha creato la società moderna, facendo passare le persone dal cosiddetto “stato di natura”, instabile e senza regole (l’indimenticabile “Homo Homini Lupus” di Hobbes, dove l’uomo distrugge i suoi simili) a uno stato dove esiste un Contratto, appunto, tra governanti e governati. Nel nostro mondo questi contratti si chiamano Leggi. Come diceva un altro pensatore mandelliano, Cesare Beccaria, “le Leggi sono le condizioni colle quali uomini indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in continuo stato di guerra”.

Hobbes, Rousseau e Beccaria avevano ben concettualizzato il tema, e in particolare il fatto che occorresse rinunciare a una parte della propria libertà individuale in cambio di una maggiore sicurezza complessiva.

Ho pensato a questa lezione perché nessuno di questi pensatori, e nemmeno il mio bravo professore, avrebbe potuto immaginare che nella relazione a due tra stato e cittadini si sarebbero inserite enormi realtà private e che il principale oggetto dell’antagonismo tra i vari attori sarebbero stati i dati personali.

Il mondo digitale partiva da principi di libertà e uguaglianza, tanto che uno dei suoi padri, Tim Berners-Lee, aveva reso disponibile a tutti il suo World Wide Web. Con il WWW si realizzava l’utopia di un sistema che si autoregolava, democratico nel vero senso del termine, dove ogni persona poteva avere un suo spazio. Il papà del WWW ora è forse il più grande critico di quello in cui sua invenzione si è trasformata, e con il suo progetto SOLID vuole riportare il web (che lui identifica ormai in modo forte con i dati) nelle mani delle persone, togliendolo da quello dei nuovi attori che nell’ambiente digitale sono cresciuti fino a diventarne i dominatori assoluti.

La velocità con cui i grandi gruppi digitali sono entrati nel sistema duale stato/cittadini ha colto impreparati sia i primi che i secondi. Le imprese sono sempre esistite e sono sempre state un fattore della società, ma la loro dimensione, seppur a volte enorme, non aveva mai prevaricato quella dei governi. Oggi aziende come Google e Amazon hanno dimensioni tali da potersi considerare non solo interlocutori ma alternative plausibili agli stati sovrani, si muovono con velocità impensabili e soprattutto basano il loro potere non sulla produzione di beni materiali ma sull’accumulo dinamico e sull’utilizzo in tempo reale di beni immateriali come i nostri dati personali che sono la porta d’accesso alla conoscenza dei nostri desideri.

In questo i cittadini hanno rinunciato di buon grado a una parte della loro libertà personale in cambio dell’accesso a un fantastico mondo di esperienze digitali. E gli stati sono rimasti a guardare, totalmente impreparati a legiferare su un sistema dove i beni e i servizi si erano smaterializzati e risiedevano in luoghi non ben definiti della rete (anche se poi a ben vedere questo posto è ben definito e in Europa si chiama Irlanda).

Rousseau, nel suo “Discorso sulle Disuguaglianze” dice: "Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire questo è mio e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: guardate dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!".

Questo pensiero è oggi quanto mai attuale: i nostri dati sono un bene prezioso e dobbiamo poter stabilire a chi darne l’accesso e l’utilizzo. Il mondo ha sempre visto pochi avere il controllo su molti ma mai si era vista una aggregazione di potere così grande in mano a così pochi.

Credo però che, anche a causa della pandemia, questa situazione di oligopolio sia complessa da sostenere. Non che il potere dei giganti del web sia diminuito, anzi a vedere il rally dei titoli di Google, Apple, Facebook e Amazon si dovrebbe dire il contrario. Vedo un problema reputazionale importante: a causa della gigantesca recessione che colpirà il mondo le disuguaglianze saranno ancora più evidenti e la mancanza di una redistribuzione quantomeno equa delle risorse generate dalla data economy potrebbe creare forti tensioni sociali (non solo “social”), amplificate proprio dalla rete di cui i big player sono padroni. Da parte loro gli stati nazionali e le aggregazioni transnazionali come l’Europa, pressati da bisogni concreti di liquidità, dovranno trovare una via unitaria, dimenticando le riserve indiane nate per loro stessa impreparazione, per regolare i rapporti con i big player, nell’interesse vero dei cittadini.

Viviamo un momento storico che ha scarnificato il sistema dei luoghi comuni, portando alla ribalta la cruda semplicità dei numeri. Ma dai numeri emerge che senza un focus sulla sostenibilità rischiamo di sprofondare in una crisi peggiore di quella del COVID. Per questo serve più che mai un vero “Contratto Sociale Digitale” che veda tutti, cittadini, grandi player e stati, lavorare insieme per costruire le regole di una convivenza di lungo periodo, rinunciando ognuno ad un pezzo della propria libertà di azione in nome di un futuro che sia davvero comune.