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10/03/2021
di Caterina Varpi

Slitta ancora la digital tax: il versamento entro il 16 maggio

Il Mef annuncia il rinvio di due mesi del versamento dell'imposta e della presentazione della relativa dichiarazione. Proseguono i lavori a livello europeo e globale

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C'è un nuovo rinvio, questa volta di due mesi, per la digital tax. Il Ministero dell'Economia e delle Finanze ha comunicato con una nota che “è in corso di redazione il provvedimento che modificherà i termini per il versamento dell’imposta sui servizi digitali e per la presentazione della relativa dichiarazione”. 

La data per il pagamento viene fissata ora al 16 maggio e non più al 16 marzo, quella per la presentazione della dichiarazione al 30 giugno e non più al 30 aprile. 

Il provvedimento vero e proprio dovrebbe rientrare nel primo decreto economico del governo Draghi, in arrivo la prossima settimana, riporta l'Ansa, per il quale serviranno ancora simulazioni, approfondimenti e confronti tra i partiti della maggioranza per mettere a punto il nuovo sistema dei sostegni, stabilendo come spendere i 32 miliardi di extradeficit già autorizzati dal Parlamento.


Leggi anche: IAB ITALIA SULLA DIGITAL TAX. NOSEDA: "RISCHIA DI NON ASSOLVERE IL SUO COMPITO"


A inizio anno, l’Agenzia delle Entrate aveva pubblicato il modello da utilizzare per la comunicazione dei dati relativi al pagamento dovuto per il 2020. 

Prevista dalla legge di Bilancio 2019, la tassa sui servizi digitali è stata introdotta solo con quella successiva. Originariamente la data di scadenza per il primo versamento era il 16 febbraio di quest’anno, poi il decreto legge del 15 gennaio ha concesso 30 giorni di tempo in più, rimandando, contestualmente, anche la scadenza per la presentazione della dichiarazione. In questo modo, la digital tax è al secondo rinvio.

La digital tax italiana

Ma che cosa è la digital tax? Si tratta della tassa sui servizi dell’economia digitale, avviata in Italia in attesa del debutto della web tax europea. Nasce dalla volontà di regolamentare la tassazione per le grandi realtà del web, con l’obiettivo di assicurare equità fiscale e concorrenza leale. 

Dovranno pagare questa imposta gli esercenti attività d’impresa, anche non residenti, che nel corso dell’anno in cui sorge il presupposto impositivo hanno realizzato, ovunque nel mondo ricavi non inferiori a 750.000.000 di euro, di cui almeno 5.500.000 nel territorio dello Stato.

La digital tax, che è stata al centro di un lungo dibattito negli anni scorsi, suscitando l'attenzione di diverse associazioni del settore come IAB Italia e Anso, si applica ai ricavi derivanti dalla fornitura di una serie di servizi digitali: veicolazione su un'interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia; messa a disposizione di un'interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro;  trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall'utilizzo di un'interfaccia digitale.

I lavori in corso per una digital tax "globale" ed europea

Il debutto delle digital tax nazionali, in Italia, ma anche in Paesi come Francia, Gran Bretagna, Spagna, Germania e Ungheria, è derivata dall’impossibilità di giungere a un accordo condiviso in sede europea a causa dell’opposizione di alcuni paesi, come Irlanda, Danimarca, Svezia e Finlandia, caratterizzati da una bassa imposizione fiscale. Tuttavia sono in corso trattative e lavori volti a una risoluzione della situazione attuale. A gennaio, la Commissione Europea aveva lanciato una consultazione pubblica sulla digital tax ed entro il mese di giugno presenterà la sua proposta.

Accanto ai lavori portati avanti in UE, sono state avviate da tempo anche trattative per un accordo globale in sede OCSE e di G20, che hanno visto un miglioramento con l'insediamento dell'amministrazione Biden negli Stati Uniti. Uno degli obiettivi del G20, presieduto dall’Italia, sarebbe quello di arrivare a un accordo a luglio.

Una svolta verso la realizzazione del progetto di applicazione dell'imposta sui colossi internet c'è stata a fine febbraio, quando, nel corso del vertice G20 dei ministri delle Finanze e banchieri centrali la segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, ha affermato che “Gli Usa non sostengono più la clausola del ‘safe harbor’ nei negoziati in sede Ocse per la tassa digitale”, proposta dal suo predecessore Steve Mnuchin, che permetteva ai colossi digitali americani di sfuggire all’imposizione. Una presa di posizione che potrebbe portare a un rapido sblocco delle trattative.

In merito a questo, a inizio marzo, il commissario europeo per l’Economia, Paolo Gentiloni, aveva dichiarato che sull'imposta digitale le prospettive di arrivare a un accordo internazionale “sono ora migliori”, ma se non si riesce “entro i primi sei mesi di quest’anno a raggiungere almeno dal punto di vista politico un’intesa globale, la Commissione Ue e i governi europei si sono impegnati a presentare una proposta europea“. 

L'approccio dell'Ocse

L'Ocse, per il raggiungimento di un accordo internazionale, propone un approccio basato su due pilastri: la definizione di nuove regole su dove le tasse dovrebbero essere pagate, insieme ad un sistema per condividere i diritti di tassazione tra i paesi e l'introduzione di una tassa minima a livello globale per aiutare i paesi di tutto il mondo ad affrontare le questioni rimanenti legate al trasferimento degli utili da parte delle multinazionali.

La reazione dei colossi del Web

All'introduzione della digital tax nei diversi Paesi, i giganti del web sono corsi ai ripari con vari stratagemmi: Google, ha aumentato del 2% le tariffe delle pubblicità che il motore di ricerca mette a disposizione in diverse country, Amazon ha aumentato del 3% le tariffe che addebita alle aziende con sede in Francia, seguita da Apple, che ha aumentato la commissione che addebita agli sviluppatori che vendono app sulla sua piattaforma non solo in Francia, ma anche in Italia e Gran Bretagna.

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