In queste settimane difficili per il Paese, alle prese con l’epidemia di Coronavirus, i numeri dei media digitali (e anche della tv) stanno crescendo moltissimo.
Da un lato, c'è il bisogno di informazione: da parte dei cittadini c’è la ricerca continua di notizie sull'andamento dei contagi, sui comportamenti da tenere, su quali saranno i sostegni concreti a cittadini e imprese da parte dello Stato. Dall'altro, ci sono le misure di contenimento, con le persone tenute forzatamente a casa che svolgono online molte altre attività: lavorano innanzitutto (di smart working ci siamo occupati qui, ndr) ma stanno anche sui social, fruiscono di servizi di streaming, usano più del solito siti o app di giochi o fitness, di cucina o ecommerce e così via ognuno secondo i propri interessi.
Questa impennata di traffico e attenzione, tuttavia, non si traduce in maggior ricavi per gli editori, anzi: i budget pubblicitari che rendono possibili – e spesso gratuiti – questi contenuti infatti non crescono di pari passo. Al contrario: con la crisi sanitaria che diventa sempre di più anche economica, sono già moltissimi i brand che hanno deciso di spostare o sospendere le loro attività di comunicazione, dopo un inizio d'anno tutt’altro che negativo su questo fronte.
A farne le spese sono anche gli editori dell’informazione: molti hanno deciso, con responsabilità, di escludere le notizie sul Covid-19 dai perimetri dei propri paywall, una scelta premiata dall’Audiweb. Ma non altrettanto dal mercato.
Nonostante aumenti di utenza che in certi casi sono superiori al 100% rispetto alle medie del periodo, c’è infatti la questione della “poca monetizzabilità” del traffico generato dai tanti contenuti dedicati a coprire in modo capillare l’argomento Coronavirus. Il tema critico è quello della brand safety: per la maggior parte delle aziende, come è facilmente intuibile, apparire con i propri annunci in articoli associati a una pandemia globale è tutt’altro che desiderabile. Tanto è vero che “coronavirus” è uno dei filtri negativi più utilizzati al momento nei software che regolano l’erogazione degli annunci su internet.
Ma il problema è soprattutto alla radice, ossia nelle campagne che non ci sono. «In questo momento i nostri numeri sono più che raddoppiati, in termini di utenti unici e pagine viste – ci ha detto Monica Belgeri, responsabile pubblicità de Il Fatto Quotidiano -. Noi abbiamo due redazioni, una per l’online e una per il cartaceo, ed entrambe lavorano a pieno regime, grazie anche all’enorme sforzo fatto sia a livello operativo sia economico per abilitare il massimo livello possibile di smart working».
Oltre al danno, quindi, la beffa. «In un periodo normale, avremmo raddoppiato i fatturati della raccolta pubblicitaria - osserva Belgeri -. Invece già a marzo abbiamo visto un netto calo delle campagne pianificate in modo tradizionale, di cui abbiamo in parte mitigato gli effetti grazie al programmatic, mentre su aprile non abbiamo alcuna visibilità. A soffrire particolarmente, per una volta, è proprio l’online. «Già aver tenuto aperte le edicole è stato un aiuto per il settore, la carta riesce anche a ospitare operazioni di comunicazioni dal profilo più istituzionale. Ma per l’editoria online non c’è sostegno. Bene l’aver esteso il credito d’imposta sulla pubblicità (qui l'articolo dedicato, ndr), ma si poteva fare di più. Chi si doveva fermare si è comunque fermato, speriamo dalla fine di aprile di vedere un’inversione di tendenza».
Numeri precisi non sono ancora disponibili, tuttavia le agenzie media, ossia le società che, nell’ambito della loro consulenza, intermediano anche gli acquisti di spazi pubblicitari per conto delle aziende, ammettono di aver fatto fronte in questo periodo a continue richieste di sospensione o congelamento di pianificazioni in partenza, in particolare da parte dei settori immediatamente toccati dalla crisi. «I primi comparti a sospendere le loro campagne, già da marzo, sono stati quelli toccati da subito dalle conseguenze dell’emergenza, come turismo, trasporti, cinema, ma anche il lusso a causa del crollo dei turisti nelle vie dello shopping», ci ha detto in proposito Luca Vergani, Ceo di Wavemaker (GroupM) una delle principali media agency operative nel nostro Paese, «poi con l’inasprimento delle misure di contenimento abbiamo visto la brusca frenata di altri settori che basano il proprio business sul retail fisico, come l’automotive».
Secondo alcuni dati rilasciati ieri da Doxa e raccolti negli scorsi giorni, sarebbero circa la metà del totale le aziende che hanno intenzione di comprimere le loro spese in marketing e comunicazione a causa del Coronavirus. Fortunatamente, non mancano delle eccezioni, con il 41% del campione che avrebbe scelto di non ridurre la propria presenza mediatica in questa fase. «Per alcuni comparti ci sono le condizioni ideali per mantenere, e in alcuni casi anche aumentare, la propria spesa pubblicitaria in questo periodo - conferma Vergani -. In primo luogo, le aziende del settori che nel breve termine hanno un vantaggio in termini di sell-out da questa crisi: per esempio il farmaceutico, il finance e tutto il comparto del largo consumo».
Alle aziende di queste aree si somma, poi, un numero crescente di aziende diverse che, pur spostando o annullando campagne di prodotto che spesso appaiono inopportune rispetto alla situazione, hanno deciso di concentrarsi su comunicazioni di brand assumendo un tono di voce “adeguato” rispetto al periodo, andando a toccare, per esempio, tematiche informative o “valoriali” per fare sentire la propria vicinanza alle persone in questo momento di emergenza. A distinguersi in questa fase sono in particolare le aziende dal profilo più istituzionale, come Poste Italiane, Mediolanum, Banca Intesa, Acea, ma anche diversi player, per esempio del già citato settore automotive, con campagne dedicate di Bmw, Toyota e, ultima a partire, anche FCA.
«Le aziende hanno oggettivamente l’esigenza di contrastare la crisi e preservare la sostenibilità economica, ma è bene non togliere del tutto il focus sull’advertising – osserva Vergani -. Bisogna anche pensare al rimbalzo che primo o poi ci sarà: lo vediamo già in Cina, mercato che ci sta anticipando in questa crisi e dove si registra un importante consumo “di ritorno” che accompagna il rientro alla normalità. E, come tutte le crisi precedenti ci hanno dimostrato, le aziende che sono riuscite a tenere costanti in queste fasi i rapporti con i propri consumatori, poi sono state le prime a ripartire, con un guadagno in termini di quote di mercato».
Almeno in questa fase, tuttavia, a prevalere sono gli atteggiamenti attendisti e il gioco, di conseguenza, non è a somma zero. Da parte loro, le concessionarie di pubblicità confermano un certo calo dell’attività, che cercano di compensare agendo sia dal punto di vista commerciale, sia sfruttando al meglio le tecnologie di programmatic advertising. «Registriamo in questa fase un incremento generalizzato dell’audience degli editori che gestiamo, particolarmente sostenuto nel comparto news e in tutta la sfera dell’intrattenimento, a partire dal gaming – racconta a Engage Marco Valenti, Ceo&Founder di Moving Up, importante concessionaria di pubblicità digitale con attività che spaziano da web al DOOH, dal video all’audio digitale. «Mentre gran parte delle campagne classiche sono state fermate o ritirate, riusciamo a compensare in parte grazie ai ricavi generati attraverso le piattaforme di programmatic, un settore che assicura ancora buoni risultati perché permette una serie di accorgimenti, grazie ai quali, riusciamo a garantire sia un’inventory di qualità agli inserzionisti, sia un sostegno concreto ai nostri editori» in un momento senz’altro difficile.
«Da parte delle concessionarie – continua Valenti - e mi sento di poter parlare a nome un po’ di tutto il settore, c’è stato da subito il massimo dello sforzo nello sviluppo di offerte commerciali importanti per consentire ai brand di mantenere un livello adeguato di visibilità in questa fase difficile. Ora serve l’impegno della domanda. Se la pubblicità serve anche a garantire un’elevata disponibilità di servizi e informazione, è importante che oggi le aziende sostengano il settore, potendo anche contare su un made in Italy della pubblicità all’avangurdia in termini di qualità, offerte e tecnologia».
«Alcune aziende - aggiunge Alberto Gugliada, Commercial Advisor di Moving Up - hanno già capito che usando un tone of voice corretto, questo momento può costituire una grande opportunità in chiave di comunicazione. Ci auguriamo che molte altre seguano questo trend e sfruttino il momentum per guardare avanti: per quanto grave, questa è una crisi che non nasce dall’interno del mondo dell’economia e, quando ne usciremo, le possibilità di risalire in fretta sono elevate».