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Maledetta Innovazione!

A cura di Cognitive

Ci costringe a cambiare come operiamo, senza sapere se poi funzionerà. Eppure non vi è altra strada per il futuro che questa maledetta innovazione!

Ecco il diario di viaggio delle sperimentazioni di Cognitive, il resoconto di ciò che ha funzionato e di ciò che non lo ha fatto. Per chi desidera essere a prova di futuro senza rovinarsi il presente.

05/07/2022
di Paolo Pettinato, Co-founder di Cognitive

Come generare conversioni nell’era del cookie effimero

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Non serve attendere l’effettiva deprecazione dei cookie da parte di Google Chrome per iniziare a preoccuparsi: chi gestisce campagne a performance riscontra difficoltà sempre maggiori nella generazione di conversioni.

Il motivo è semplice: i cookie sono un sistema sempre più inefficiente per il tracciamento e l’intercettazione dell’utente. Come testimoniano le varie ricerche indipendenti pubblicate nella stampa di settore, e come riscontriamo noi stessi nel nostro network, una singola persona arriva a essere associata a oltre cinquanta cookie differenti in un mese.

È un problema enorme: gli stessi concetti fondanti delle strategie a performance – prospecting e retargeting – perdono di significato nel momento stesso in cui perdiamo la capacità di tracciamento dell’utente nel tempo.

Come possiamo fare retargeting, se non siamo più in grado di riconoscere un utente già esposto? Se non lo riconosciamo, non saremo in grado di ritargettizzarlo. E ancora più importante: in prospecting, siamo sicuri della verginità di quel prezioso utente per il quale siamo disposti a biddare cpm sempre più alti?

In questo articolo vedremo quali sono le principali difficoltà legate alla frammentazione dei cookie e come le tecnologie cookieless possano offrire una valida soluzione a questi problemi, rappresentando un vantaggio competitivo centrale per i brand che si occupano di performance e advertising.

Non parliamo di teoria ma di pratica: Cognitive utilizza nativamente una tecnologia cookieless proprietaria sin dal 2019. Qui troverete condensata l’esperienza di tre anni nell’applicazione regolare, costante e scettica del nostro PersitentID su oltre 400 campagne performance.

Primo problema: prospecting e retargeting perdono di significato

Notoriamente, le attività di performance sono basate su due pilastri: il prospecting e il retargeting.

  • Con l’attività di prospecting l’investitore cerca nuovi utenti, non esposti e in target, da ingaggiare rispetto all’offerta in corso.
  • L’attività di retargeting si concentra, invece, sulla capacità di ritrovare utenti che sono stati già esposti. Può essere un retargeting di tipo creativo, in cui è possibile reingaggiarli offrendo un diverso messaggio pubblicitario, ma soprattutto può attuarsi su utenti che hanno già percorso una certa parte del funnel: sono approdati nella landing page del cliente, hanno analizzato l’offerta e iniziato a compilare i propri dati, hanno messo il prodotto nel carrello. Poi, per vari motivi, hanno abbandonato la piattaforma. Sono gli utenti più preziosi, perché hanno già manifestato l’intenzione di acquistare.

Tutte le attività di performance advertising si basano sulla capacità di trovare un prospect favorevole, riconoscere in quale posizione del funnel si trovi e convincerlo ad avanzare, portandolo alla conversione.

Come abbiamo visto, un singolo utente equivale a cinquanta cookie (in un solo mese). Ciò significa che, per un sistema basato sui cookie e incapace di tracciare l’evoluzione del cliente, quello stesso utente viene visto come cinquanta entità diverse.

Non è solo un’opportunità mancata, è anche uno spreco incredibile: se non riusciamo a identificare la parte più consistente degli utenti, le attività di bidding (ovvero le aste per l’acquisto di pubblicità) si concentreranno sui pochi cookie rimasti attivi. È come se ignorassimo il 90-95% dei potenziali spazi pubblicitari che potremmo comprare, per concentrarci solo su quel 5% che è effettivamente tracciabile. L’effetto è quello di un aumento del prezzo di acquisto e sulla riduzione del buy rate.

Fa male all’investitore pubblicitario, che pagherà prezzi folli a fronte di una minore efficienza in acquisto, ignorando deliberatamente centinaia di migliaia di prospect. Fa male al publisher, che avrà solo una piccola parte della propria inventory monetizzata. Il resto verrà corrisposto a valori più bassi e non sarà in grado di distinguere le caratteristiche di un determinato utente, appiattendo il target.

Secondo problema: l’effetto Aiazzone

La difficoltà di riconoscere l’utente comporta l’impossibilità di regolare le frequenze e il rischio di considerare vergini utenti già pesantemente esposti al messaggio pubblicitario. Il che mi riporta agli anni 80, l’epoca delle spalline, dei capelli cotonati e degli spot di Aiazzone. Cavalcando l’onda delle tv locali e private, gli spot di Aiazzone erano in ogni luogo, in ogni momento della giornata e senza soluzione di continuità. Lo scopo era fidelizzare al marchio. L’effetto fu il suo opposto: generare viscerale insofferenza al continuo martellamento pubblicitario da scaturire in continui atti di vandalismo sui furgoni dell’azienda. La società dovette cancellare il brand dai propri mezzi, anonimizzandoli per evitare le continue azioni di boicottaggio.

Oggi si parla dell’“effetto Aiazzone” quando un’azienda che comunica in modo così insistente, genera nel pubblico un effetto contrario a quello sperato. Al posto dell’attrazione verso la marca, assistiamo alla nascita di disinteresse o, in alcuni casi particolarmente gravi, persino di fastidio.

Vogliamo che capiti anche ai nostri brand?

Problema numero tre: audience profiling meno accurato

Minore è il tempo in cui il cookie vive e minori sono le occasioni di studiare l’utente. Se un utente cambia 50 cookie in un mese, potremo studiare il comportamento di quell’utente osservando solo un cinquantesimo del suo user journey.

Inoltre, minore è la durata del cookie, minore è il suo ritorno economico e, conseguentemente, meno interesse ci sarà da parte delle concessionarie pubblicitarie nell’investire nell’enrichment di quel dato. Difficilmente si cercherà di ingaggiare un utente per ottenere ulteriori informazioni, se il suo lifetime è così ridotto. Questo si traduce in un impoverimento della capacità di identificare il target.

Problema numero quattro: differenza tra la vita del cookie e la finestra di conversione

Il sogno proibito di ogni marketer è che l’utente veda il banner, vi clicchi sopra e compri subito il prodotto, senza indugi. Questa fantasia mal si sposa con la realtà e si infrange violentemente con la finestra di conversione.  Ovvero con il lasso di tempo tra la prima esposizione di un utente a un messaggio pubblicitario e la finalizzazione dell’azione (acquisto, lead generation). È infatti usuale che l’utente raccolga le informazioni, ne parli col partner, o magari si trovi in un contesto non ottimale (sulla metro, al lavoro) che lo spinge a rimandare l’acquisto: solo mille i motivi per cui si rinvia la finalizzazione.

Per quello che riguarda l’esperienza dei nostri clienti, la finestra di conversione varia moltissimo, passando dagli abituali quattordici giorni sino anche ad oltre un mese. Senza gli strumenti per tracciare l’utente per un periodo lungo, non potremo utilizzare strategie opportune; questo genererà un’enorme inefficienza, sia in fase di erogazione della campagna che in fase di attribuzione. La conversione verrà attribuita a operatori molto aggressivi, secondo la politica del “last cookie wins”. Da qui, lo strapotere di alcune tecnologie di retargeting che vivono cannibalizzando il lavoro di altre realtà più valide, le quali si occupano effettivamente di portare utenti interessati.

Problema numero cinque: gli algoritmi si basano su dati sbagliati

Un’altra grande inefficienza è dovuta al fatto che, nelle campagne performance, in genere gli algoritmi di acquisto e ottimizzazione si basano sulla creazione di lookalike di chi converte: si inserisce un pixel all’interno della thank you page, si riconosce l’utente che ha effettivamente svolto l’acquisto, si utilizzano le sue caratteristiche a livello sociodemografico e di interessi, dopodiché si cercano utenti simili. Noi, in particolare, analizziamo il Cognitive Fingerprint, ovvero la costellazione di interessi, valori profondi, abiti mentali e segnali deboli di quell’utente (ma di questo parleremo meglio un’altra volta).

Se gli algoritmi non sono in grado di riconoscere l’utente all’interno del percorso di funnel, verranno educati su dati sbagliati.

I vantaggi di un sistema cookieless

Tutti questi problemi impattano sull’organo più sensibile dell’essere umano, il portafogli. Nella seconda parte di questo articolo, che verrà pubblicata tra due settimane, vedremo insieme quali potrebbero essere i vantaggi teorici di una soluzione puramente cookieless e cosa abbiamo verificato nella realtà, su oltre 400 campagne gestite da Cognitive in oltre tre anni, usando una tecnologia proprietaria che chiamiamo “PersistentID”.

Per commenti, domande o per ricevere in anteprima la seconda parte dell’articolo, scrivimi a maledetta_innovazione@cognitiveadv.com