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Chi ha paura del dato cattivo?

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a cura di

04/05/2017

La Data Science diventa Pop

Volendo impostare un discorso strutturato su dati, DMP e data management, ho pensato che la cosa migliore fosse cominciare col fornire un contesto, introducendo i diversi ambiti in cui l’utilizzo dei Big Data ha fatto la differenza. Per non partire subito con un tripudio di acronimi e tecnicismi, ho ritenuto di dare una connotazione più pop a quello che è percepito come un ambito riservato a sviluppatori, matematici e statistici. Per questo primo appuntamento ho ceduto la parola a Thierry Bignamini, capo del Client Services di Weborama, in virtù della sua conoscenza del mercato, del comparto DMP-dati, nonché della sua cultura enciclopedica, che spazia dal classicismo al punk, dai film d’autore alle commedie sexy. Chi meglio di lui per spiegare a nonne e nipoti con esempi semplici a cosa servono i dati e quali problemi possono risolvere?

Data Science made Pop

Quando ho iniziato a lavorare nel digital 10 anni fa poteva ancora capitare di parlare con qualche imprenditore che davanti al nuovo miracoloso strumento di marketing online rispondeva lapidario: Io non credo in Internet. La penetrazione della rete nelle case e negli uffici era già massiccia, ma internet non era percepito come parte integrante della vita reale delle persone. C’erano gli entusiasti. I visionari che già allora teorizzavano l’immaterializzazione dei servizi. Ma permaneva l’idea che internet fosse solo un passatempo scemo. Roba per ragazzini e smanettoni alla Matrix, per qualcuno. Per altri, ed era un problema, un covo di pervertiti pornomani. Del resto nel 2007 in Italia c’erano 200.000 iscritti a Facebook e Altavista era ancora un’alternativa. Ciò oggi vale per i dati. Gli addetti ai lavori vedono possibili ricadute positive dei big data ovunque. Sull’ingorgo delle 18.30, la coda al comune, o l’assortimento degli scaffali del supermercato. Ma là fuori la gente non crede ai dati. Non vede una ricaduta immediata dei dati sul proprio business perché non la vede sulla propria vita. Perciò ho raccolto un elenco di casi molto concreti in cui dati, algoritmi e data science contribuiscono a migliorare le nostre vite.

Maps and Legends

Un tempo c’era l’atlante del Touring, l’Onda Verde e la speranza di non trovare un ingorgo prima del notiziario del CCISS viaggiare informati.
Oppure il Grippaudo e il telefono di casa con cui cercare di farsi comunicare gli orari dell’unica corriera che raggiunge Casesperse di Chissadove. Ok, sono vecchio. 
Ma ancora pochi anni fa non c’erano strumenti che integrassero tutte le informazioni in un’unica interfaccia. E il Grippaudo diventava il sito delle FS, ma poi dovevi sperare che l’orario della corriera per Casesperse fosse online. I dati erano tutti lì, mancava qualcuno che li elaborasse. Waze lo conoscete. Vero? Un’app di navigazione come mille altre, ma con qualcosa in più: ogni device è sia utente sia contributore. 
Waze raccoglie dai GPS dei suoi utenti informazioni sullo stato del traffico, segnalando in tempo reale ingorghi, cantieri ed incidenti. Ma ci sono anche servizi per organizzare viaggi con i mezzi pubblici. Moovit, per esempio, integra mappe, navigazione e i dati e gli orari di tutti i mezzi disponibili, anche di diverse aziende. 
In più, come Waze, ha una rete di utenti contributori che segnalano problemi e variazioni. Praticamente il Tuttocittà, l’orario dei treni e il servizio percorribilità strade dell’ACI in una sola app. Scivoli danneggiati e ascensori rotti possono diventare ostacoli insormontabili per chi si muove in sedia a rotelle. E le applicazioni di navigazione diventano fondamentali. Servizi come Mapability e iScope incrociano le mappe con i dati forniti dagli utenti per mappare le barriere architettoniche e i percorsi accessibili e visualizzarli su una mappa, consentendo di individuare il percorso migliore.

Police and Thieves

La serie Person of interest è basata su un’AI – la Macchina – che analizza un’enorme mole di dati per prevedere attentati e crimini. Ai personaggi principali il compito di intervenire per prevenirli. Una sorta di Minority report con i big data al posto dei mutanti. Ovviamente la Macchina, come i precog, è solo finzione e per fortuna non dobbiamo porci il problema etico sotteso ad entrambe le opere: è legittimo fermare una persona perché si crede che commetterà un crimine? Ma possiamo chiederci: davvero un algoritmo può aiutare a prevenire i crimini? Secondo la polizia di Los Angeles sì. La California è zona sismica, si sa. Prevedere i terremoti è ancora impossibile, ma esistono algoritmi ragionevolmente precisi per quanto riguarda le scosse di assestamento. Per esempio quello sviluppato da G. Mohler. E se si potesse anche prevedere in che zona è più probabile che si verifichi un crimine? Mohler, l’Università della California e l’LAPD hanno provato a caricare dei dati storici nella loro Macchina per vedere se sarebbe stata in grado di prevedere gli eventi criminosi che si erano effettivamente verificati. E una volta dimostrata la bontà dell’ipotesi, hanno iniziato a usare l’algoritmo per organizzare giri di pattuglia più efficaci a parità di organico. I soliti Americani sempre avanti di un decennio, dite? Eh no! 
Nel 2009 l’assistente capo Venturi, della Questura di Milano, ha sviluppato Keycrime, un software per l’analisi delle rapine che ha permesso di triplicare la percentuale di rapine che si concludono con il fermo del criminale.

[Fine prima parte]